1938: nasco a Napoli, di circa cinque chili (ai quali in seguito non aggiungerò molto di più).
Ho quattro anni, quando nel porto della mia città salta in aria una nave carica d’esplosivo, disintegrando tutti i vetri delle case. Mio padre, medico, ma soprattutto stratega di vaglio, ricorre ad un collega radiologo che gli fornisce un gran numero di radiografie. Usate, purtroppo: quelle nuove servono a lui. Le radiografie, applicate alle finestre, si rivelano sufficientemente protettive contro pioggia e gelo. Ma allo spuntar del sole pareti e pavimenti si popolano di teschi e casse toraciche, di tibie ed ossa pelviche d’ogni foggia e patologia. Si parla dell’infanzia come di un periodo di formazione. E di deformazione no?, dico io.
Di lì a poco mio padre, sempre lui!, terrorizzato dai bombardamenti, elegge Venafro, paese a nord di Napoli, come rifugio tranquillo nel quale trasferire la famiglia nella attesa della fine del conflitto.
Gli eventi che seguono a stretto giro, per quanto li si voglia interpretare in senso positivo, non confermano in pieno la profezia paterna: è appunto a Venafro che si attesta la resistenza tedesca, la tristemente nota “linea gotica”; e lì resta per circa due anni.
1944: come Dio vuole ritorniamo a casa, nella Napoli dei soldati americani e delle “segnorine”. Ma, appena seienne, devo ammettere che faccio la conoscenza di quella realtà soltanto per sentito dire, e a bassa voce per giunta.
Lo stesso anno imbocco il nero tunnel degli studi regolari, cunicolo di poche certezze e molte incertezze che sbocca direttamente nella maturità classica, l’unica forma di maturità di cui io sia in grado di esibire regolare certificazione.
Quel tunnel, tuttavia, non m’impedisce di guardarmi attorno e di contrarre una violenta passione per il basket, disciplina in cui “secondeggio” (non me la sento di dire “primeggio”), arrivando sovente a cogliere gli onori delle cronachette sportive, nell’ultima pagina, in fondo a destra, del quotidiano cittadino con la minore tiratura. E’ qui che mio fratello, più grande di me di qualche anno, comincia a collezionare i ritagli di stampa che mi riguardano.
Ma gli amori di gioventù, si sa, sono fascine che bruciano in fretta. Quando, pressappoco in quel tempo, m’imbatto nella chitarra classica. Non ho un attimo d’esitazione e mi regolo secondo l’aureo principio del chiodo che scaccia il suo omologo.
Nel frattempo m’iscrivo alla facoltà di Giurisprudenza. Non nutro nessun interesse particolare per Digesti o Pandette: quella è l’unica facoltà rimasta libera dopo le scelte operate dai familiari e dai parenti che mi precedono. E io non sopporto di fare il fanalino di coda a nessuno.
La chitarra, per suo conto, comincia a darmi qualche soddisfazioncella. Il mio nome fa capolino dalle cronache musical-mondane, ma rigorosamente all’ultima pagina del minor quotidiano della città, in fondo a sinistra questa volta. E mio fratello, paziente, inaugura un altro album di ritagli.
Si giunge così all’epoca del boom economico italiano. Nei primi anni Sessanta non esiste cittadino medio che non possegga, o aspiri a possedere, la sua brava macchinetta con il nome della fidanzata, o della moglie, o della figlia, o – in mancanza di meglio – della nonna, stampigliato sul radiatore. Decido di entrare nella RAI TV, Ente Radiotelevisivo Italiano, per potermene comprare una anch’io (di macchinette, si intende, non di fidanzate). Avrei fatto meglio ad entrare in un salone automobilistico, l’avrei pagata meno cara.
Tra una cosa e l’altra vola via un ventennio. Ma in quel tempio dello spreco economico e della dissipazione del genere umano, e più ancora di quello umanistico, apprendo comunque tutto quanto è bene non fare in tema di spettacolo. E’ un breviario alla rovescia, ma è pur sempre un breviario.
1981: esco dalla RAI a fronte media, né alta né bassa, forte del fatto che ho appena scritto, e visto andare in scena, il primo testo “Uscita di emergenza”, che fa risalire il mio nome dall’ultima pagina di quel quotidiano dalla tiratura minima verso pagine meno marginali di una stampa un po’ meglio distribuita.
Ma nel frattempo mio fratello se n’è andato, smentendo penosamente la mia solida convinzione che fosse immortale. E dunque i ritagli di giornale che accennano alla mia persona, se voglio ancora esercitare questo veniale peccato di narcisismo, ormai li devo raccogliere da me.