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Archivio n° 65
Ogni volta che il mestiere mi porta a confrontarmi con un classico mi si ripropone lo stesso problema: se voglio portare a termine il mio lavoro con dignità non ho scampo, io quel classico lo devo odiare. Con tutto il mio spirito. Se lo amo, sono perduto. Dall’amore all’adorazione il passo è breve. E l’adorazione è un sentimento passivo, che il più delle volte si esprime attraverso la pura contemplazione.
L’odio no, l’odio è un motore che ti mette addosso la voglia di operare, fa da agente provocatore, ti pone di fronte al classico in una posizione di conflitto, ti soffia nell’orecchio infamie sul suo conto. “Perché intoccabile?”, ti sussurra. “Se ti hanno commissionato di rimetterci le mani è segno che loro non lo considerano tale”. “Non lo considerano un classico?” ribatti tu per prendere tempo. E l’odio: ”Non lo considerano intoccabile”.
E poi l’odio, sentimento complesso come una consolle barocca, custodisce in uno dei suoi cassetti più segreti un sottosentimento di vitale importanza: l’invidia. E quando tu maneggi un classico può esserti molto utile invidiarlo, entrare in competizione con la sua forma, anche se sai che è una battaglia disperata, una battaglia persa in partenza. Una simile consapevolezza ti esalta, ti conferisce l’aria stupida di un eroe da melodramma di maniera. E così te ne vai in giro per le strade a gridare: ”Le sole battaglie che meritano di essere combattute sono quelle perse!” E magari trovi anche qualcuno che ti dà ragione.
Fatta questa breve e sbilenca premessa, passo a parlare del testo di Bulgàkov, e dei criteri da me adottati nel curarne la presente revisione/traduzione.
Tanto per cominciare, non avendo nessuna conoscenza del russo, mi sono affidato a due traduzioni esistenti, quella di Anna Maria Carpi e quella di Bruno Meriggi. Operazioni di tutto rispetto, ritengo , ma, come spesso accade con degli specialisti che non sono immersi nel teatro fino al collo, le battute del testo lamentano in più punti una certa lentezza; sono, come si dice in gergo teatrale, un po’ sedute; cosa che non intacca affatto la loro dignità letteraria ma le rende comunque faticose da recitare. In tal senso ho creduto opportuno correre in soccorso degli attori, privilegiando il destino di quelle battute, che è pur sempre di dover giungere al pubblico per la via più diretta.
Il secondo problema in cui mi sono imbattuto è la oggettiva lunghezza della commedia nella versione originale, lunghezza che riflette in toto un rapporto con la dimensione tempo, non soltanto a teatro, che oggi è andato pressoché perduto. Fatti salvi quei rari casi di spettacoli fluviali, sorretti il più delle volte dal carisma dei loro artefici, l’attuale resistenza dello spettatore si è sensibilmente ridotta, anche ad opera della TV, prestigiosa scuola di formazione per uno spettatore-tipo incapace di restare seduto più di due ore, nonché animato dall’incomodo zelo di commentare ogni cosa ad alta voce e di condividere emozioni e sorprese con parenti e amici, siano pure molte file distanti da lui.
Pressato da una simile esigenza, ho ritenuto di sacrificare quegli aspetti più saldamente ancorati alle tematiche politiche e sociali proprie dell’epoca in cui scriveva e operava l’Autore. È stato un po’ come il gioco della torre: dovendo gettare a forza qualcosa di sotto, ho concentrato la mia scelta, riducendoli al minimo, sui fin troppo numerosi riferimenti alla censura e alle altre ipertrofie del regime sovietico – che in fin dei conti non dicono nulla di nuovo allo specialista, mentre possono distogliere il profano da quelli che sono e rimangono i momenti sempreverdi del testo, come ad esempio la fame dei comici e dei poeti di compagnia (e se in questo ho peccato di autobiografismo, Dio, Nazione e Popolo vogliano perdonarmi!).
Un altro punto in cui mi sono concesso una speciale “licenza di incidere” è quello relativo a certi meccanismi della comicità, che nell’originale sono presenti in forma di accenno, ma che a parer mio potevano essere potenziati a tutto vantaggio dello spettacolo. In questo intento mi ha sorretto la salda convinzione che l’ignobile Bulgakov – è sempre l’odio che parla in me -, pur vivendo in Russia e dovendo fare i conti con una cultura come poche convinta di bastare a se stessa, da quell’uomo di buone letture che era non poteva ignorare le esperienze che in altri paesi d’Europa andavano maturando in quel tempo. E mi riferisco al Cabaret tedesco degli anni Venti, a Karl Valentin, e, perché no?, al nostro grande Petrolini. Perché occorre ricordare che in quel tempo era in atto una vistosa rivoluzione del linguaggio in direzione dell’astratto, del surreale, del patafisico. Attraverso meccanismi come il “nonsense” o il pensiero automatico si stabiliva con il mondo reale un nuovo rapporto che poteva fare a meno di ogni logica tradizionale. E il mondo reale? Non opponeva resistenza a tanto arbitrio, il mondo reale? Al contrario: sembrava non attendere altro. Perché il mondo reale soffre da sempre della sindrome dell’incompreso, e dunque non si sente mai così ben trattato come quando lo si interpreta con l’ausilio di procedimenti analogici, o comunque irrazionali. Non arrivo ad affermare che soltanto i pazzi sono in grado di comprendere la realtà che li circonda, ma confesso che non vedo l’ora di impazzire per poter verificare “sul campo” una simile affermazione.
Come che sia, la parola, liberata dai ceppi del suo senso logico, riacquista tutta la sua capacità di alludere, funzione che ai fini della conoscenza, almeno nel campo dell’arte, è senza alcun dubbio da preporre alle altre. Senza contare che una parola non più asservita alla logica induce sempre coloro che la usano a sospettare di non aver usato la parola giusta. Salutare effetto, il sospetto. Che consente di avvicinarsi alla verità molto più di quanto non faccia la fiducia.
Tornando in argomento, dopo questo mio breve raptus sul difficile ménage tra linguaggio e realtà, coppia sempre in crisi, sempre sul punto di divorziare, e con preciso riferimento al tipo di iniziative da me assunte a spese delle traduzioni summenzionate, adduco un solo esempio che nella sua estrema linearità vale un po’ a illuminarle tutte.
Nel Prologo della commedia, quando il Direttore del Teatro in cui deve andare in scena “L’isola Purpurea” non sa dove sbattere la testa con le ininterrotte richieste di entrate di favore, in una delle due traduzioni da me consultate, quella della Carpi, il personaggio, rispondendo al telefono, dice testualmente: ”Non diamo biglietti di favore. Riverisco”; nell’altra, invece, quella a cura di Bruno Meriggi, lo stesso personaggio si esprime nel seguente modo: ”Non distribuiamo biglietti gratuiti. Ossequi”. Nella mia revisione/traduzione, più sbrigativamente, gli faccio dire: ”Niente omaggi. I miei omaggi”.
Non ho altro da aggiungere in proposito, se non che adesso, ad operazione ultimata, e di conseguenza al di là del termine consentito a ripensamenti e crisi di coscienza, posso infine smettere i panni dell’odio e indossare quelli della stima e del rispetto più che dovuti ad un autore della portata di Michail Afanasievich Bulgàkof.
Anche perché – ora soltanto me ne rendo conto – io non l’ho conosciuto direttamente. Me l’hanno presentato, se così posso esprimermi, Anna Maria Carpi e Bruno Meriggi. Dunque, è a quei signori che va il mio odio iniziale, e di conseguenza il ritrovato rapporto di stima e rispetto.
PRODUZIONI: L’isola purpurea